Il diversity management

Gabriella VigoRaffaella Vigo, formatrice per aziende importanti quali l’Oreal, ha tenuto il 30 Maggio un’interessante lezione sul Diversity Managment. Per prima cosa è stato chiesto ai partecipanti di presentarsi uscendo dai soliti schemi e usando piuttosto le linee guida della Ruota della Diversità, composta da cinque cerchi concentrici, ognuno dei quali corrispondente ad un’area, via via più ampia, in cui collegare elementi della propria persona (es. origini, educazione, abitudini, ambito professionale, eventi storici).
In seguito si è analizzato il cosiddetto “Albero della diversità” che ospita tra le sue fronde le macrodifferenze che possono essere evidenti nell’incontro con l’altro (età, fisico, sesso, etnia, comportamenti …), mentre nasconde tra le radici le micro diversità di più difficile percezione (credo religioso, fede politica, valori, background culturale), senza dimenticare elementi borderline che si collocano nella zona del tronco (quali lo status sociale e la disabilità, non sempre evidenti). Nel leggere la realtà dobbiamo infatti essere sempre consapevoli dei nostri filtri per evitare fraintendimenti. In questo senso è bene tenere a mente la differenza tra fatti e opinioni: i primi, che comprendono il parlare e il fare, possono condurre a discriminazioni punibili per legge, le opinioni invece riguardano un pensiero, che è libero. Un’altra differenza che è importante ricordare riguarda “equità”, valorizzazione nel rispetto delle differenze e dunque meritocrazia, e “uguaglianza”, intesa invece come appiattimento in una forzata assenza di diversità. L’equità nei contesti organizzativi è legata in primo luogo al reclutamento di candidati con un ampia gamma di background e settori sociali, ma la stessa impostazione deve riguardare anche i responsabili della selezione. L’eterogeneità è un valore che va dunque salvaguardato insieme alla valutazione meritocratica, per evitare discriminazioni, anche quelle indirette che si verificano quando si impone una regola per tutelare una categoria ledendo, senza che ce ne sia la volontà, i diritti di un’altra. La discriminazione infatti è reato, anche se non sempre la normativa a riguardo è chiara, perlomeno nel senso comune. Attraverso una sorta di quiz i ragazzi hanno potuto verificare quali comportamenti sono tutelati e quali invece punibili: ad esempio, se è risaputo che le molestie sessuali rientrano nelle discriminazioni, forse non tutti sanno che solo nel 2006 c’è stato un cambiamento nell’onere della prova: chi ha commesso il reato deve dimostrare il contrario. Preferire un uomo invece che una donna per un determinato lavoro non è sempre sinonimo di pregiudizio, ma solo quando il sesso è essenziale alla natura del lavoro (ad esempio nei settori di Arte e Spettacolo). Criteri antidiscriminatori di genere vanno applicati anche all’ambito retributivo dove le donne, ancora oggi, prendono spesso meno dei colleghi maschi: per garantire e affrettare il raggiungimento della parità fra i sessi, che fisiologicamente si dovrebbe verificare nel 2050, sono state previste “azioni positive” ossia attività volontarie pensate per accrescere la rappresentatività di un piccolo gruppo, ma di cui poi tutti beneficeranno. Le quote rosa, così come l’obbligo all’assunzione di un certo numero di disabili, rientrano invece nelle cosiddette “discriminazioni positive”, ossia azioni obbligatorie che mirano a rimuovere discriminazioni negative dando temporaneamente un trattamento di favore a quelle categorie che altrimenti sarebbero sfavorite. L’esercizio successivo ha previsto invece una serie di “ritratti” scritti su grossi fogli appesi per la stanza: poche righe che tratteggiavano personalità molto diverse (casalinga di 30 anni madre di due figli, ragazza indiana che cura la famiglia, uomo non vedente e lavoratore, padre lavoratore di 4 figli). I partecipanti al master hanno dovuto scrivere, sotto a ciascun ritratto, tutti gli aggettivi positivi, ma anche gli stereotipi negativi che la breve descrizione suggeriva loro. Alla luce di quanto scritto, i ragazzi, divisi in piccoli gruppi, hanno “adottato” un ritratto, sforzandosi di inventare per lui una storia in grado di scardinare i pregiudizi emersi nel lavoro precedente. A turno hanno poi sostenuto un colloquio di lavoro fingendo di essere la persona scelta e rispondendo alle domande degli “esaminatori” coerentemente con il background creato in comune accordo. Lo scopo era quello di guardare una situazione da una nuova prospettiva, cercando di sviluppare una sensibilità interculturale. Di fronte alle differenze la prima reazione è infatti quella della negazione, seguita dalla difesa. Poi viene il tentativo di minimizzare le diversità e solo dopo arriva l’accettazione, l’adattamento e l’integrazione intesa come valorizzazione di ciò che ci differenzia. Quando si hanno pregiudizi si considera la propria convinzione come un fatto, oggettivo e certo, cercando conferme nel comportamento dell’altro, che spesso, anche grazie ai neuroni specchio, risponde alle aspettative. La visione di un estratto di un film ha reso tutto più chiaro ai ragazzi che hanno costruito una matrice in cui collocare i comportamenti dei personaggi (discriminante e non, con pregiudizio e senza). Particolarmente pericoloso è risultato l’atteggiamento discriminante senza pregiudizio, poiché non volontario e per questo spesso preso “alla leggera”. In generale è fondamentale ricordare che quando assistiamo a comportamenti che vanno in questa direzione, tutti abbiamo una corresponsabilità: anche se non compiamo l’atto discriminatorio o ne siamo vittime, abbiamo il dovere di intervenire. Un ulteriore accorgimento spesso sottovalutato è quello di non giudicare o discutere il sistema di valori dell’altro: non per tutti sono importanti le stesse cose e quello che a volte sembra solo uno scontro di comportamenti e abitudini, in realtà, proprio come accade all’iceberg parzialmente nascosto, è un conflitto che si origina in profondità, tra immagini sociali e modi differenti di vedere il mondo. Questa diversa visione deriva proprio dai nostri filtri, che arrivano dalla famiglia, dalla scuola, dalle esperienze, dai modelli sociali. Ma è possibile non farci trascinare dai nostri pregiudizi? Sì, solo esercitandoci a conoscerli e a sospenderli: ed è proprio questo il lavoro con cui i ragazzi hanno concluso la giornata. Ognuno ha infatti cercato un filtro che solitamente applica alla realtà e ha provato a guardare le cose eliminandolo, limitandosi a osservare senza valutare, al massimo, facendo domande e ascoltando con attenzione le risposte.

 By Chiara Vassena

Il valore dell’archeologia nel presente e il business del futuro su Internet

Paolo Corti, professione archeologo, ha cercato di spiegare nella lezione del 16 maggio, in cosa consista veramente il suo lavoro, nell’immaginario comune ancora identificato con quanto fa Harrison Ford in “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta”. Innanzitutto l’archeologo non lavora da solo ma in una squadra: coordinando un equipe di specialisti di varie materie con competenze diverse, inoltre tutto parte da una ricerca pura, oppure da un rinvenimento casuale. Ancora più a monte, è però prioritaria la domanda: perché studiare il passato? I ragazzi hanno provato a rispondere al dubbio amletico che ha assillato generazioni di studenti. La “memoria storica” permette all’uomo di continuare a salire nella scala dell’evoluzione, di continuare ad esistere come specie, a differenza degli animali che ad ogni nuova generazione si ritrovano punto a capo perché incapaci di “insegnare”, ossia trasmettere conoscenze.

Paolo CortiMa come si svolge il lavoro dell’archeologo? In mancanza di un rinvenimento, si devono cercare indizi, “anomalie” nella natura (forme geometriche individuate dalle foto satellitari, differenze nel colore del terreno ecc.). Segue la ricerca di superficie condotta con gli strumenti del mestiere (pennello, cazzuola e bisturi), seguendo segnali come l’antropizzazione del terreno. A questo punto si procede con una sezione del suolo in cui, ovviamente, ciò che si trova in alto è più recente. Ovviamente fino ad un certo punto: si tratta infatti di un metodo di indagine adottato a partire dagli anni ’70, prima infatti ci si limitava a scavare grandi buche per recuperare oggetti integri, si cercava il manufatto nella sua interezza trascurando i singoli frammenti e la suddivisione temporale data dalla profondità. Quest’ultima però non è l’unica dimensione che entra in gioco, fondamentale è infatti anche lo scavo in estensione: pezzi vicini spesso hanno un legame motivato. In ogni caso ciò che è importantissimo è documentare il più possibile e con tutti gli strumenti a disposizione l’evoluzione dello scavo archeologico: si tratta infatti di un processo che non può essere ripetuto. Nel farlo dobbiamo avere un occhio al futuro e uno al passato: all’esposizione e ai futuri studi, ma anche al messaggio dietro al reperto archeologico, un messaggio che non sempre siamo in grado di capire ma che abbiamo il dovere di custodire. Forse qualcuno potrà un giorno spiegarlo, o forse no: d’altra parte i simboli racchiudono un’idea valida all’interno di un sistema di conoscenze e quando questo si perde, diventa difficile, se non impossibile, interpretarli. In ogni caso gli indizi che possono essere utili all’archeologo sono molteplici: anche i cosiddetti “elementi poveri” o di scarto danno informazioni importanti (le ossa degli animali ad esempio raccontano quali specie fossero presenti, se da allevamento o da caccia, se diverse da quelle attuali per un cambiamento del clima e così via), è importante perfino quello “che non c’è” (lo studio dell’architettura di una struttura può partire proprio dalla forma delle buche lasciate nel terreno dai pali, studio che permette di determinare l’inclinazione degli stessi). Un insieme diversificato che necessita appunto del lavoro di vari esperti e che si conclude con la ricostruzione e il tentativo di reinterpretazione da parte dell’archeologo. In realtà sussistono diverse linee di pensiero di fronte ad un reperto danneggiato: si può ricostruire lo stesso, oppure reintegrare le parti mancanti con un materiale che renda distinguibile l’intervento del restauratore, o ancora esporre l’oggetto così come lo si è ritrovato realizzando una copia di quella che si ipotizza fosse la sua figura originaria.
La nostra zona si presenta ricca di testimonianze: se nel 1988 i ritrovamenti archeologici ammontavano a 480, oggi se ne contano ben 150 in più, di cui una settantina, tra torri e castelli, nella sola Valsassina. Una storia che prende il via dal Paleolitico, epoca a cui risalgono le selci trovate nel meratese, per poi passare alle testimonianze del Mesolitico, con ritrovamenti di sassi scheggiati nella zona dei Corni di Canzo, per arrivare all’industria microlitica del Neolitico. Paolo Corti ha fatto riflettere i partecipanti del master sul grande rispetto che è giusto tributare ai nostri antenati, che dimostravano capacità manuali e conoscenze geologiche nella scelta delle pietre non indifferenti: non dimentichiamoci infatti che non avevano nulla e si sono dovuti inventare tutto. Nell’eneolitico, in particolare, si registrano numerosi reperti della cosiddetta “Cultura di Civate”, nella cui scoperta, purtroppo, la mancanza di un attento lavoro di documentazione ha determinato la perdita del messaggio originale. Contemporaneamente anche a Ello si sviluppava un’altra cultura con caratteristiche del tutto peculiari: è quella dei “vasi a bocca quadrata”. Tra menhir, incisioni rupestri e sassi coppellati, si arriva all’Età dei metalli, con lo sviluppo delle palafitte, determinato da un’intelligente scelta economica, e in particolare nell’Età del Bronzo, con quello del commercio, con Alto Adige e Liguria. La seconda parte della mattinata è stata dedicata a un tema importante: è possibile una gestione “imprenditoriale” dei beni artistici? Corti ha individuato proprio in questa terminologia l’origine di una concezione che vede la cultura come un riempitivo. La storia del restauro può essere d’aiuto: dopo la Conferenza di Atene del 1931, motivata dalle distruzioni che la guerra aveva determinato, nel ’64 con la Carta di Venezia si definiscono come meritevoli di tutela i soli “monumenti” e la “Carta italiana del restauro” del 1972 conferma l’idea che il valore del passato risieda solo nell’“opera d’arte”. Una visione dunque fortemente limitante, che esclude in toto, ad esempio, l’archeologia e la paleontologia e, in generale, i reperti incompleti. In Francia al contrario si parla di “patrimonio” suggerendo implicitamente che l’arte, la cultura e la storia siano qualcosa che si eredita e che si trasmette, ma che si può anche far fruttare. L’Italia, che presenta in ogni regione almeno una “Pompei”, potrebbe moltiplicare i posti di lavoro e risollevare l’economia percorrendo questa strada: l’ingresso gratuito nei musei e l’impiego di volontari determinano inoltre un danno nei confronti di chi ha un certo titolo di studio, si tratta infatti di una grave perdita di professionalità. Giustamente la cultura è di tutti, se però lo Stato deve tutelare questo diritto mantenendolo”gratuito”, allora dovrebbe fare lo stesso per tanti altri servizi di importanza primaria che pur hanno dei costi per i cittadini. E’ però necessario un radicale cambiamento nell’idea di museo: non un deposito aperto al pubblico, ma un organismo vivo, un polo di ricerca e didattica, in grado di produrre cultura. Insomma la cosa importante non è tanto far venire i visitatori, ma far sì che tornino, e in Italia, che è un museo a cielo aperto, questa potrebbe costituire davvero una via di uscita dalla crisi.

 

Il pomeriggio è stato invece dedicato al tema dell’e-commerce: ovvero come fare soldi su internet. la diffusione degli smartphone ha determinato una crescita importante degli utenti di Internet: basti pensare che, ad oggi, sono milioni le persone che si connettono utilizzando unicamente la telefonia. I dati confermano che la pubblicità di Google, il più grande venditore di pubblicità al mondo, da’ un rientro tra il 5%-10% contro lo 0, 05% del volantinaggio: non è un caso dunque che ci sia stato un crollo degli investimenti in altri settori pubblicitari, mentre Internet rimane l’unico settore di crescita anche in tempi di crisi. Si tratta dunque di un campo in cui nessuno può permettersi di non giocare: se non partecipi, lo faranno sicuramente i tuoi concorrenti. Ci sono però buone notizie per i nostalgici della vendita “face to face”: tra le caratteristiche del commercio online c’è quella di basarsi sulla “reputation”, quindi le truffe hanno una percentuale inferiore all’1%, inoltre non occorre troppa inventiva perchè il cliente si aspetta un procedimento standard, con passaggi prestabiliti. Grazie a Google Analytics si può anche sapere quanti sono i miei clienti potenziali: il trucco è cercare delle “parole giuste” che mi permettano di farmi trovare dal maggior numero di persone, finendo sulla SERP, la prima pagina di Google, dove ci si può collocare anche utilizzando gli annunci a pagamento (per i quali, ogni volta che un potenziale cliente clicca, bisogna pagare una certa somma a Google). L’e-commerce in senso stretto, un negozio online che prevede ricerca, carrello, iscrizione, compilazione e pagamento e tracking, funziona particolarmente bene per i prodotti confezionabili. Tuttavia esiste anche un mercato per sevizi e prodotti particolari, anzi: Chris Anderson nel testo “La lunga coda” ha dimostrato che su Internet hanno successo specialmente i progetti con un bacino di vendita di “nicchia” perché, paradossalmente, sono più facili da trovare rispetto a quelli più generici, per i quali funziona meglio un tipo di pubblicità tradizionale. Si parla a questo proposito si SEM Marketing che comprende attività che generano un traffico cosiddetto “qualificato” nella direzione di un sito web: un canale di vendita che utilizza “landing page” e “splash page”, le prime sono pagine su cui “atterri” e che non permettono navigazione interna ma solo una maschera in cui inserire i propri dati, le seconde si collocano invece all’interno del sito. In ogni caso è molto importante in primo luogo “reach” raggiungere il cliente e lo si può fare non solo utilizzando Google, che permette una selezione solo spaziale, ma anche Facebook che dà la possibilità di filtrare il target di clienti per età anagrafica, titolo di studio, luogo ecc. Lo scopo è quello, passando per “acquisition”, “conversion” dell’interessato in cliente, di concludere il ciclo della vendita con la “retention”: la fidelizzazione. Davanti alla tecnologia ormai possiamo solo essere “re-attivi” e agire come di fronte ad un obbligo, o “pro-attivi” e vederla come la grande opportunità che è.

 

By Chiara Vassena

Conciliazione famiglia lavoro e imprenditori in aula Lecco 100

La lezione sulla conciliazione famiglia-lavoro è stata tenuta da Egidio Riva, un esperto della materia, che conosce sia dal punto di vista teorico, lavorando come docente all’Università Cattolica, sia nella realizzazione pratica, collaborando con Regione Lombardia su progetti relativi a queste tematiche.
Un tema, quello della conciliazione famiglia-lavoro, che fino a 10 anni fa era sconosciuto ai più e che invece oggi è onnipresente, anche se spesso frainteso. I ragazzi hanno provato a dare la loro definizione e l’hanno identificato come un tentativo di rispondere alla difficoltà, avvertita soprattutto dalle donne, nel ‘tenere insieme’ lavoro e della famiglia. Ma si tratta di due realtà che sono effettivamente in conflitto? Ed è davvero un problema tutto femminile? L’impostazione fordiana, secondo cui un “buon padre è un buon lavoratore”. ha consolidato una divisione di genere, messa in discussione dalle donne svedesi che, negli anni ’70, hanno cominciato ad essere massicciamente presenti nel mondo del lavoro, chiedendo riconoscimenti. Negli anni ’90 l’UE ha cominciato a promuovere un sistema con più attori (datori di lavoro, enti amministrativi e governativi…), politiche e ambiti al fine di attuare pari opportunità per uomini e donne.

La conciliazione è infatti in realtà una tematica che tocca entrambi i sessi: il genere femminile viene spesso penalizzato in ambito lavorativo, ma quello maschile ha al contempo un grosso svantaggio nelle cure parentali. Si tratta però di una materia complessa che ha a che fare con il benessere individuale e familiare del lavoratore, anche dal punto di vista economico, mira ad un miglioramento della qualità della vita, ma incide anche nella competitività tra le aziende.

Nel mondo americano, ad esempio, le imprese cercano di fornire migliori servizi per attrarre e fidelizzare le migliori risorse. La conciliazione famiglia-lavoro è così parte delle politiche del lavoro, non un problema sociale, anche se il risvolto della medaglia è quello di creare lavoratori di serie A, manger e professionisti super qualificati, e B, personale non specializzato
In Europa, e in Italia, la conciliazione è percepita invece come un diritto di tutti e per questo è materia delle istituzioni pubbliche. Con la crisi attuale viene inoltre spesso a mancare uno dei due termini, il lavoro, anche se investire nella conciliazione famiglia – lavoro è una strategia ottimale anche in mancanza di risorse perché le donne lavoratrici comportano un’esternalizzazione di servizi (lavanderia, pulizia della casa, cura dei bambini ecc.) che creerebbe nuovi posti di lavoro.
Oggi nel nostro paese le aziende possono intervenire su base volontaria, ad integrazione delle misure già previste dalla legislazione, anche per consentire ai propri dipendenti di poter gestire al meglio le molteplici domande di ruolo, venendo cioè incontro, non solo a coloro che hanno famiglia, ma a tutti quelli che hanno bisogno di trovare un equilibrio tra vita lavorativa ed esigenze personali. Molteplici le dimensioni su cui agire: da quella organizzativa (relativa cioè a tempi e luoghi), a quella economica (retribuzione e benefit), culturale (formazione e comunicazione); dei servizi (cura, time saving). L’obiettivo deve essere ‘virtuoso’ ossia, secondo lo schema di Porter e Kramer, costituire un ‘valore condiviso’ che massimizzi efficacia ed efficienza, interesse dell’azienda e bisogni dei lavoratori. Politiche di questo tipo agiscono sia nella sfera lavorativa, rendendola più efficiente e rispettosa delle esigenze dei lavoratori, e familiare, riducendo le tensioni interne. Ciò comporta una serie di vantaggi individuali (riduzione dello stress, senso di appartenenza..) ma anche aziendali (miglioramento clima, fidelizzazione, immagine positiva..).
Tuttavia ogni misura impatta diversamente dalle altre, alcune usate insieme migliorano i risultati o, al contrario risultano controproducenti, altre ancora risentono di variabili organizzative, inoltre bisogna considerare il gap tra piano ideale e pratico. Insomma i risultati non sono generalizzabili, ma strettamente connessi alle caratteristiche della forza lavoro, dell’impostazione culturale ecc. Nel contesto italiano, ad esempio, è culturalmente affermato un modello presenzialista, per cui la presenza al lavoro è sinonimo di professionalità, quando al contrario alcuni studi dimostrano che quest’impostazione a volte favorisce un dilazionamento dei tempi del lavoro: se l’assenza, in seguito ad orari flessibili, sarà percepita come mancanza, allora questa misura non verrà utilizzata per i suoi risvolti culturali negativi.

Egidio RivaImportantissima rimane dunque la metodologia: innanzitutto l’analisi preliminare con la valutazione, attraverso uno strumento di rilevazione adeguato, dei bisogni e dei desideri della forza lavoro. A questa segue la definizione di una strategia, stabilendo obbiettivi, con una comunicazione che coinvolga e crei consenso nei lavoratori. Infine implementazione e valutazione, per consolidare nel tempo la strategia: si tratta di un vero e proprio investimento che, se non trova formalizzazione ma rimane ‘una tantum’, darà risultati limitati.

 

Andrea BeriIl pomeriggio è stato invece dedicato all’intervento di un giovane e affermato imprenditore: Andrea Beri, presidente del gruppo giovani di API e titolare della Ita Spa di Calolziocorte, azienda che da tre generazioni produce acciaio dalle più svariate applicazioni. Con molta onestà Beri ha raccontato la sua esperienza personale, costellata di ostacoli e successi: dall’esperienza scolastica come ‘studente mediocre’ a quella universitaria, nella difficile facoltà di ingegneria a cui è riuscito ad accedere, nonostante il numero chiuso, spronato forse proprio dalla sfida lanciata da un professore che non credeva nelle sue capacità. Studi poi interrotti per partecipare al servizio militare: in questo mondo, con i suoi pro e contro, Beri ha avuto anche l’occasione di imparare molto facendo carriera come sindacalista interno. In seguito l’ingresso nella trafileria di famiglia, in turno in reparto: con una madre presidente e un padre responsabile dell’area commerciale, Beri ha imparato a gestire la comunicazione, talvolta difficoltosa, tra direzione e lavoratori. Oggi Andrea Beri è amministratore delegato su tre aziende, dopo aver acquisito una compagine imprenditoriale in Veneto da alcuni ex soci. L’inizio della crisi nel 2009 ha però comportato una serie di preoccupazioni riguardo a quelli che sembravano licenziamenti inevitabili: investendo invece sulla ristrutturazione dell’azienda si è riusciti a triplicare la produzione e a divenire leader del mercato italiano. “Di fronte alle difficoltà non bisogna tirarsi indietro ma mettersi in gioco, vivendo l’azienda con la stessa passione con cui si vive la propria realtà familiare”: questo, secondo Beri, il marchio del vero imprenditore, che deve inoltre essere distinto da una correttezza e un’etica che gli permettano di fare scelte responsabili.

 

by Chiara Vassena