Acquisire strumenti nuovi ed efficaci: le mappe mentali e le tecniche di creatività

Il secondo appuntamento di Lecco100 2015 ha consegnato ai partecipanti i primi strumenti di lavoro per affrontare al meglio le problematiche dei processi decisionali. La giornata, affidata completamente alle lezioni di Alessio Sperlinga, ha affrontato temi quali la costruzione delle mappe mentali e alcune tecniche di creatività.

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Le mappe mentali, il cui utilizzo è stato formalizzato da Tony Buzan sul finire del secolo scorso, rivelano la loro utilità di riscrittura delle informazioni secondo nuove regole, che tengano conto della rizomatica capacità del nostro cervello di creare relazioni. In esse si sviluppano le potenzialità dei colori, delle immagini e dell’emotività narrativa che agisce sulla mente umana facilitandone l’esercizio della memoria. Gli allievi hanno ridisegnato le proprie passioni e i propri obiettivi secondo le regole di questi schemi e hanno infine confrontato i lori metodi.

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Nel pomeriggio poi si è riflettuto su alcuni contesti problematici in cui la razionalità e lo sforzo intellettivo non sono sufficienti a raggiungere il nostro obiettivo, vale a dire la soluzione del problema. Ciò di cui abbiamo bisogno, perciò, è una profonda iniezione di creatività che ci aiuti ad evadere dagli schemi limitanti della logica. Credenze, dogmi, abitudini che pigramente preferiamo non modificare sono tutti ostacoli al nostro essere creativi e alla possibilità di trovare soluzioni ai problemi più impensabili, come quello di risultare un credibile venditore del primo Novecento in procinto di concludere un contratto di vendita della Tour Eiffel.

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La creatività ci dà la possibilità di esprimere al massimo noi stessi, di andare oltre le barriere del “tutto ciò è impossibile perché non riesco ad immaginarlo”. Riconoscendo i preconcetti che troppo spesso ci guidano saremo in grado di ascoltarci e trovare la soluzione del problema partendo dalla sua ricostruzione. In concreto, i processi mentali oggi più utilizzati nelle aziende per riprodurre questo percorso sono il Brainstorming e il Freewheeling, il primo fondato sulla compartecipazione istantanea di più menti e il secondo più vicino ad un procedimento di rilassamento individuale, passo chiave per esprimere al massimo le nostre potenzialità creative.

by Paolo Saporito

GIOVANI E LAVORO: AL VIA IL MASTER 2015 DI LECCO100

E’ partita venerdì 6 febbraio lIMG_0043a nuova edizione del  Master manageriale “Competenza, Convinzione, Cuore” per la gestione delle risorse in azienda promosso dall’Associazione Lecco100. Una ventina circa i giovani ‘talenti’ che hanno iniziato il percorso di formazione gratuita, giunto ormai al 5° anno, che quest’anno avrà come tema “Il Viaggio”.

Ad accogliere i ragazzi, oltre a Emanuele Belgeri, Alessio Sperlinga, Piero Guasco e Angelo Cortesi, tra i docenti che terranno le lezioni, era presente anche Angelo Belgeri che ha invitato i ragazzi a lanciarsi in questa nuova avventura con uno spirito curioso e aperto alle novità: «Partite come chi compra il biglietto di andata e non quello di ritorno» ha infatti consigliato il presidente dell’Associazione Lecco100.

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Alessandra Adobati, Maria Celeste Dossi, Gianfranco Lacquaniti, Paolo Mauri, Giulia Mazzoleni, Nicolò Monti, Marco Piatti, Eleonora Ripamonti, Elisabetta Riva,  Roberta Riva, Andrea Rusconi, Paolo Saporito, Chiara Scalese, Simone Valaperta, Andrea Vezzoli, Mattia Longhi, Valentina Melillo e Irene Anghileri hanno dai venti ai trent’anni circa e hanno storie molto diverse: c’è chi ha una formazione umanistica, chi si sta laureando in economica, chi lavora per l’azienda di famiglia, ma tutti sperano che questo corso fornisca loro strumenti per affrontare al meglio il proprio futuro professionale. Un’aspettativa confermata da Chiara Vassena e Chiara Bellingardi, tra gli allievi delle precedneti edizioni intrevenuti alla lezione d’apertura.

Presenti anche alcuni delle figure imprenditoriali che, durante il master, porteranno la loro testimonianza: Davide Pozzi, direttore generale di SECO Tools Italia, ha spiegato i meccanismi interni ad una società multinazionale, Sergio Bartesaghi, ha raccontato l’evoluzione della propria esperienza lavorativa da concorrete diretto a partnership della Ferramenta e Utensileria Airoldi&Belgeri, infine mons. Franco Cecchin, Prevosto di Lecco, ha parlato delle sfide che il mondo del lavoro pone oggi alla luce dei valori della fede cristiana.

Chiara Vassena

I colloqui di lavoro

Simone_CapoferriSimone Capoferri, Responsabile delle Risorse Umane di Honeywell in alcuni paesi europei, il 13 giugno ha tenuto una lezione su colloqui di lavoro e curriculum vitae, tematiche di grande interesse per i numerosi laureandi e neolaureati partecipanti al master. L’obbiettivo è stato quello di aumentare il “senso di consapevolezza” in un colloquio o nella stesura di un curriculum, al fine di migliorare le possibilità di fare una buona impressione, con lo scopo di trovare il “lavoro giusto”. Quando un’azienda cerca una figura, o quando ci si autocandida per una posizione, bisogna infatti tenere in considerazione che si tratta di una valutazione a doppio senso: non solo se io vado bene per quell’incarico, ma anche se è un incarico che va bene per me. Ovviamente più esperienza si ha le spalle più si diventa esigenti, si tratta di un processo in evoluzione e con noi deve crescere anche il nostro curriculum. Innanzitutto, contrariamente a quanto fa ritenere il senso comune, modelli standard, come quello europeo, non sono necessariamente i migliori o i più apprezzati, anzi. Si tratta però di una base da cui partire per creare qualcosa fatto su misura, chiaro, preciso e conciso, in grado di farci distinguerci nel mucchio. Fondamentale infatti è colpire l’attenzione, ma di altrettanta importanza è sapere come mantenerla: banditi dunque i curricula narrativi e super dettagliati, mostriamo la nostra capacità di sintesi rimanendo nelle due pagine massimo e, attraverso l’uso di elenchi puntati e il grassetto, evidenziando le sole informazioni importanti. Evitiamo dunque inutili ripetizioni, sprechi di spazio e indicazioni superflue (per intenderci non serve scrivere Nome – Cognome – Data di nascita prima dei nostri dati anagrafici, ma anche la via della nostra precedente sede di lavoro: più importante invece inquadrare brevemente la nostra ex azienda). L’ordine migliore è quello dati – formazione – esperienze, ma anche gli hobby sono importanti se indicati con consapevolezza: devono cioè essere funzionali a far capire meglio le nostre qualità, le skills che devono comunque essere esplicitate. Anche i “lavoretti” che non c’entrano nulla con la posizione che vorremmo andare a ricoprire possono avere una loro ragione d’essere, specialmente nel curriculum di un laureato con poca esperienza, perché mostrano la voglia di fare. In ogni caso è necessario customizzare il nostro scritto e, se si vuole, accompagnarlo con un breve  prologo o epilogo, o ancora da una lettera motivazionale opzionale (che in alcuni casi viene letta dopo il cv). Ma cosa cercano oggi le aziende in un neolaureato? La domanda, rivolta ai ragazzi, ha dato origine a risposte diverse: aggiornamento, flessibilità, adattamento, elasticità, lungimiranza, curiosità, velocità, qualità, passione, collaborazione, intraprendenza, autonomia..queste alcune delle parole emerse. Il quadro delineato è quello di un candidato ideale che non aspetta che l’azienda gli insegni tutto, ma che sa trovare da solo le risposte di cui ha bisogno, cercandole anche nelle relazioni con i colleghi più esperti, modelli da cui imparare. Non sono emerse invece le “competenze”, sempre meno importanti e ricercate, ma non per questo inutili: si tratta di una base da cui partire, non di un fattore differenziale. Fondamentale è saper reagire agli insuccessi che, sicuramente, prima o poi arrivano per tutti. Anzi proprio l’assenza di sconfitte è sintomo di qualcosa di strano: vuol dire che non ci si sta mettendo in gioco, non si sta rischiando, autolimitandosi. Alessio Sperlinga è intervenuto per chiarire questo punto: occorre divenire imprenditori di sé stessi:  non aspettare che succeda qualcosa, ma essere intraprendenti e proattivi, vedere nelle nuove sfide, opportunità di apprendimento e crescita. Oltre al curriculum, l’altro grande elemento di confronto nel rapporto iniziale con un possibile datore di lavoro, è il colloquio. La chiave del successo come sempre risiede nella preparazione (conoscere l’azienda, pensare a possibili domande ecc) ma, dato che non c’è una seconda occasione di fare una buona prima impressione, un ruolo fondamentale è giocato anche da aspetti formali (postura, abbigliamento, gestualità). L’atteggiamento deve trasmettere la giusta energia e positività, anche i nostri difetti vanno calibrati e scelti con cura in modo che possano essere visti anche sotto una luce favorevole. Non si tratta certo di mentire, ma bisogna presentarsi sotto la migliore luce possibile, per questo mai fare affermazioni generiche ma dicendo solo ciò che siamo in grado di dimostrare o giustificare concretamente. Anche in caso di domande o affermazioni indiscrete, che ci infastidiscono o innervosiscono, fondamentale è non far trapelare alcuna reazione ma cercare invece una base comune, che non sia eccessiva o troppo studiata. Infine è importante fare domande per dimostrare il nostro interesse, con attenzione a questioni delicate come l’aspetto economico, puntando non tanto su competenze ed esperienze, ma su quanto ricavato dalle stesse, ciò che ci arricchisce e distingue da un altro candidato. Ricordiamoci di non partire sconfitti in partenza, si tratta di un pericoloso atteggiamento che tende ad auto avverarsi, carichiamoci invece positivamente, solo così lasceremo un buon segno.

By Chiara Vassena

La leadership per i giovani manager

Piero_Guasco_LeadershipPiero Guasco venerdì 6 giugno ha tenuto una lezione sulla leadership, ovvero la capacità di guidare un gruppo, quest’ultimo infatti è uno dei due poli indispensabili: senza seguaci non ci può essere un “leader”, termine spesso abusato e trattato quasi come una “parolaccia”, ma che racchiude invece una relazione molto delicata tra capo e collaboratori. Dopo la definizione iniziale, si è cercato di fare il “punto nave” per riassumere il percorso fatto: dalla comunicazione, con le sue tre leggi e gli apici della stella della relazione, ai cinque pilastri della mediazione, per arrivare al “palazzo dei processi”. Quali processi? Quelli manageriali, le quattro colonne che dalle fondamenta della comunicazione e negoziazione, conducono ai piani alti, dove ha sede la relazione capo collaboratore. Dei quattro processi: motivazione, controllo, biasimo e delega, abbiamo indagato nel dettaglio il primo e l’ultimo. La motivazione è estremamente importante: il capo deve essere d’esempio al collaboratore, a cui deve sempre comunicare con precisione le direttive, senza affidarsi al “buon senso” per non rischiare fraintendimenti. E’ importante anche dare un feedback concreto, dei riscontri precisi, ma attenzione alle parole: esistono modi diversi per esprimere un medesimo concetto. Infine fondamentale attenersi ai risultati e non cadere nell’emotività, ma continuare ad imparare, ovvero crescere personalmente e far crescere i nostri collaboratori. Questo in teoria, ma in pratica? I ragazzi si sono divisi in piccoli gruppetti provando a definire in cosa consista la “motivazione” e in cosa la “manipolazione”. E’ emerso che tutti conferivano alla prima un’accezione positiva, un’azione improntata sulla condivisione degli obbiettivi: il capo fa nascere nel collaboratore un “buon motivo” per fare una certa cosa, il dipendente dunque trova dentro di sé la spinta e la forza per portare a termine un compito, perché lo ritiene importante e ne condivide le finalità. Al contrario la manipolazione è qualcosa di negativo, che ha a che fare con i sotterfugi, che prevede l’uso dell’altro come uno strumento, e ha alla base una mancata trasparenza delle motivazioni. In realtà, con grande sorpresa, Piero ha rivelato che si tratta di due strade, egualmente valide dal punto di vista “morale”: esistono infatti persone che vogliono essere manipolate, ossia preferiscono che si dica loro cosa fare senza ulteriori complicazioni e coinvolgimenti, perché il lavoro rimane per loro un dovere e nulla più. La differenza, come avevano giustamente individuato i partecipanti del master, sta proprio nella condivisione di opinioni, che non significa banalmente “mettere l’altro a conoscenza di” ma farlo diventare parte attiva, dunque scambiarsi le idee e accoglierne le osservazioni. Un buon leader deve però attuare una leadership dinamica, cioè capire se ha di fronte un collaboratore che vuol essere manipolato o motivato: non esiste una via “giusta” in assoluto, ma è indispensabile valutare di volta in volta la situazione. L’attività seguente ha visto i ragazzi per una volta nel ruolo del “capo” che di volta doveva motivare Piero, un venditore che non aveva rispettato l’obbiettivo pattuito, per tutta una serie di ragioni. Apparentemente quello di chi ha potere, può sembrare un ruolo semplice: invece si è rivelato più complicato del previsto. Alcuni partecipanti si sono lascati “sottomettere” dal dipendente, altri si sono arrabbiati e l’hanno quasi “licenziato”, ma con difficoltà si è arrivati a definire una possibile strategia: in primo luogo è fondamentale prepararsi su ciò che serve e dunque conoscere tutto del proprio collaboratore. Secondariamente è importante mettere in luce le positività, facendo anche complimenti motivati sui fatti. Una volta mostrato al dipendente che si ha fiducia in lui, si può chiedere un obbiettivo più ambizioso: l’altro a questo punto può rifiutare o accettare. Nel primo caso si attua un modello direttivo: il collaboratore non ha capito la nostra fiducia e dunque gli si chiede di dimostrare il proprio impegno con verifiche del proprio lavoro, nel secondo caso entra in gioco il Q.A.P. (Quale Azione Proponi): incomincia la condivisione. Nella delega, invece, si fa riferimento ad un vero e proprio processo di “slegatura” in cui il capo si toglie un incarico e lo affida a qualcun altro. In realtà così facendo, non si cede semplicemente un’incombenza, ma una vera e propria parte di potere: si da’ fiducia ad un’altra persona, permettendogli di scegliere al posto nostro e, contemporaneamente, crescendo con lui. Il dipendente sarà infatti autonomo e avrà potere decisionale, ma la responsabilità sarà in “fotocopia”, nel senso che anche il superiore che delega dovrà essere in grado di rispondere delle scelte del sottoposto. Per questo come sempre è indispensabile la preparazione (decidere l’oggetto della delega, valutare se un gesto di rinuncia è vissuto con positività, elaborare un metodo tecnico di passaggio). Di primaria importanza anche scegliere con cura il destinatario della delega: qualcuno che condivida i nostri valori, abbia il giusto potenziale e possa essere “allenato” al fine di tradurre gli obbiettivi in risultati. Ovviamente la delega va comunicata in modo formale: chiarendo l’oggetto, la motivazione della scelta di un candidato, ma anche la situazione attuale e l’obbiettivo. Questi due ultimi punti, una volta verificata la disponibilità dell’altro ad accettare la delega, dovranno in realtà essere negoziati con il dipendente poiché devono essere definiti di comune accordo. Ritorna la Q.A.P., ossia la condivisione e la partecipazione: sempre insieme va definita la strada da seguire, con assunzione di responsabilità, solo a questo punto si può comunicare la decisione a tutti quanti. Il lavoro non è finito anzi, proprio nel momento in cui gli altri vengono a sapere della scelta incominciano i “rumors” e le maldicenze. Il capo deve, come un ombrello, proteggere il dipendente scelto dalle invidie altrui. Solo una volta completamente autonomo il collaboratore potrà fare a meno di questa protezione, ma attenzione si tratta di un’occasione più unica che rara, una volta revocata, la delega non va mai ridata.

 By Chiara Vassena

Imprenditori e formazione di genere

Durante la mattina del 23 Maggio si sono intervallati ben tre ospiti con caratteristiche molto diverse, ma accomunati da una forma mentis “imprenditoriale”, testimoniata nel racconto della propria esperienza.

Diana MacWilliam Hospice AirunoDiana Mcwilliams, come suggerisce il nome, è di origini straniere, ma dopo aver sposato un italiano e aver vissuto per tanti anni nel nostro territorio, si sente pienamente “brianzola”. E proprio all’ospedale di Merate comincia, giovanissima, a fare volontariato: qui conosce una delle prime equipe in Italia ad occuparsi di malati terminali e cure palliative. Si tratta dell’associazione Fabio Sassi, nata nel 1989 in seguito alla morte di un giovane malato di tumore, per la quale comincia ad occuparsi della raccolta fondi. Le cure palliative, che approdano in Italia per la prima volta con la Fondazione Floriani, devono il loro nome al “pallium” romano: il mantello che proteggeva il viaggiatore dal freddo. Questo tipo di terapia mira infatti non alla guarigione del paziente, ma ad alleviare le sue sofferenze: il dolore fisico non è però l’unico che prova il malato terminale, esiste infatti anche un dolore spirituale, psicologico e sociale. Quest’ultimo è dovuto al fatto che il malato, e la sua famiglia, vengono progressivamente abbandonati dalla società e lasciati a loro stessi: di fronte alla morte, ci si sente a disagio e, spesso, semplicemente si sceglie di evitarla allontanandosi. Diventa presto evidente che l’attività in ospedale non basta: si cerca di intervenire nei comuni dove si trovano i pazienti e l’equipe guidata dal dottor Marinoni incomincia a offrire ai familiari, che assistevano a casa i malati, la possibilità di essere temporaneamente sostituiti, da un medico o da un infermiere, qualora avessero necessità di allontanarsi per i più svariati motivi. Anche l’ACMT ha incominciato a offrire lo stesso servizio a domicilio per la zona del lecchese: 365 giorni all’anno vengono dislocati infermieri e dottori che settimanalmente si trovano per scambiarsi informazioni sui pazienti. L’obbiettivo è quello di permettere al malato terminale di morire nella propria casa e non in ospedale dove finisce, suo malgrado, con il diventare un numero tra tanti: si cerca dunque di dare dignità agli ultimi giorni di vita di una persona, in modo che li trascorra più serenamente possibile. La persona malata deve infatti essere parte attiva: è importante che sia informata sulle proprie condizioni e consultata sulle possibilità di cura. Con il tempo però ci si rese conto che non tutti potevano usufruire del servizio a domicilio: alcune case strutturate su due piani non permettono infatti la deambulazione, con l’allungamento della vita, inoltre, spesso si hanno coppie con coniugi anziani che da soli non possono prendersi cura del malato, anche perché sono sempre più numerose le “famiglie disperse” in cui i figli abitano lontani. Per tutti questi motivi si decise di creare un “Hospice” un luogo, che fosse il più possibile simile ad una casa, in cui le persone potessero passare gli ultimi giorni di vita, ma non solo, anche vivere un periodo di “assestamento” tra la dimissione dall’ospedale e il ritorno a casa. Il concetto di “hospice”, nato in Inghilterra negli anni ’50, era ancora relativamente “nuovo” nell’Italia del 1997, anno in cui cominciarono i lavori nella ex canonica di Airuno. Nonostante le difficoltà burocratiche, aggravate da leggi che prevedevano accorgimenti più “sanitari” (come l’ossigeno fino ai letti) e dai contrasti avuti con il Comune, grazie al grande impegno degli Alpini e ai fondi raccolti dall’associazione, l’hospice “Il Nespolo” vede finalmente la luce nel 2002. La struttura prevede oggi 12 camere letto con posto letto per un familiare, se il paziente lo desidera. Paziente che per accedere alla struttura viene segnalato dal medico di base: l’hospice si trova a metà tra l’ospedale di Merate e quello di Lecco, quindi nel 2013 ha accolto ben 68 pazienti dal bacino del primo, 68 dal secondo, 17 da Bellano, e altri ancora da Milano e Bergamo arrivando, da quando è stato aperto, ad accogliere ben 2143 persone. Ogni malato viene ospitato gratuitamente ma il costo per l’associazione è, per ognuno, di 357 euro al giorno, parzialmente coperti da un contributo dell’Asl di 229 euro. E’ dunque importantissimo reperire fondi attraverso eventi (Festival Cinetica, camminate), attività esterne (mercatini) e correlate (Scuola di formazione e master): anche perché nell’hospice oltre ai tanti volontari, sono impiegati anche molti professionisti. Medici, infermieri, musicoterapisti ma anche una filosofa, che affianca il prete, nel cercare di dare risposte, da un punto di vista laico, alle domande sul senso della vita quando questa si appresta a finire. Diana Mcwilliams, da anni 30 anni presidente dell’Associazione Fabio Sassi, ha voluto ribadire l’importanza dell’onestà nei confronti del paziente: solo dandogli, con la massima chiarezza, tutte le risposte che cerca, potrà evitare tensioni inutili dovute al fatto di non sapere con esattezza che cosa gli stia capitando. Accettare la realtà permette al paziente di sfogarsi, togliersi un peso, e sentirsi ulteriormente alleggerito dalla condivisione del dolore. Una volta che la sofferenza interiore cala, pian piano viene meno anche quella fisica: alcune persone che entrano in sedia a rotelle escono camminando sulle proprie gambe, e anche il solo poter raggiungere il bagno in autonomia fa una grossa differenza in termini di qualità della vita e dignità personale.
Miriam Cornara
La dott.ssa Miriam Cornara, ex sindaco di Olginate e responsabile dell’Ufficio provinciale scolastico, ha invece portato la sua esperienza in tali campi: nel 2006, terminato il mandato, sceglie di non rientrare nella scuola primaria come insegnante di matematica e scienze, ma manda una lettera all’ex Provveditorato agli Studi chiedendo di essere messa a servizio dell’Ufficio Provinciale Scolastico. Viene dunque destinata al settore che si occupa di supportare l’autonomia delle scuole, un compito che prevede il fornire loro idee e progetti innovativi. Tra i tanti ambiti, in cui lavora, si occupa in primo luogo dell’orientamento in senso didattico: ossia nel tentativo di mettere in contatto le discipline scolastiche con il mondo del lavoro. Nel progetto “alternanza scuola – lavoro”, in particolare, è prevista una traduzione delle competenze teoriche in pratica: fondamentalmente durante 2-3 settimane dell’anno scolastico, lo studente non va a scuola ma al lavoro. Si tratta di un percorso che parte in seconda con l’orientamento al lavoro (imparare a scrivere un curriculum, formazione sulla sicurezza, giornate in azienda ecc.): molto spesso l’impiego lavorativo da’ un’immagine più completa del ragazzo, lo valorizza come persona, mostrando un altro lato sconosciuto ai professori. La cosiddetta “alternanza spinta” è un progetto che punta invece a combattere in modo più mirato il problema della dispersione scolastica: attraverso l’alternanza con il lavoro, si cerca di riportare a scuola i ragazzi, sottoponendo loro una didattica destrutturata. I docenti si trovano di fronte classi di massimo dodici studenti a cui fanno lezione per tre giorni alla settimana, i tre rimanenti invece sono impegnati in un “organizzazione lavorativa” conforme al loro percorso, indispensabile è dunque la collaborazione con i vari attori del territorio, quali i sindacati.
Il ruolo ricoperto dalla dott.ssa Cornara richiede dunque grande dinamicità, in cui dice di essere stata facilitata dalla precedente esperienza amministrativa come assessore e sindaco, ulteriormente sviluppata in altri ruoli a livello provinciale e regionale.

Alberto NegriniLa mattinata è stata chiusa dall’intervento di Alberto Negrini, presidente del Distretto di Lecco Centro per Confcommercio e, nel mercato della distribuzione di pelletteria e valigeria, imprenditore di terza generazione. Il tratto che caratterizza il commerciante italiano è, secondo Negrini, l’individualismo: nel nostro paese abbiamo sempre avuto infatti una miriade di piccoli negozi, dove la figura del gestore era un “tuttofare”. Uno scenario ben diverso da quello del resto del mondo occidentale, dove si sono molto presto sviluppati poli distributivi-aggregativi e società di una certa dimensione. Il fenomeno della globalizzazione ha accentuato le differenze tra queste visioni: con l’avanzare della nuove generazioni, è conseguenza naturale una diversa gestione imprenditoriale, ben altro tipo di conseguenza è quella indotta dal cambiamento delle leggi. Le norme degli ultimi anni hanno determinato un mercato iperliberalizzato: la politica ha sdoganato catene e poli distributivi: così è venuto meno il limite sociale, determinato dal numero limitato di licenze imposto dal comune. Una liberalizzazione che si è estesa anche agli orari: ora è infatti possibile lavorare anche in quei giorni in cui prima era obbligatorio tener chiuso. Tutto questo ha determinato un asciugamento del mercato ordinario, rendendo evidente quanto ormai fosse obsoleto il modello individualistico. Nel frattempo abbiamo assistito anche ad una iperindustrializzazione con possibilità di de localizzare, non solo la produzione, ma anche la clientela grazie agli sviluppi della tecnologia. I rapporti con i fornitori sono ovviamente cambiati: la riduzione del numero di volte in cui si acquista, da una alla settimana a due all’anno, ha comportato un’accurata pianificazione dello stesso e delle sue conseguenze, considerando come obbiettivo il massimo consumo senza eccesso di acquisto. Dato che l’analisi statistica è indispensabile e, in quanto dipendente dai flussi di mercato, slegata alla natura del prodotto, risulta materia molto tecnica, oggi è impensabile una figura “tuttofare” del commerciante tradizionale, ma è fondamentale affidarsi a professionisti. Così come importante è far rete: un business migliore passa dall’abbattere i costi condividendo le esigenze comuni. Il primo passo è stato, in questo senso, la creazione di un Consorzio, che però con il tempo è imploso sotto le spinte individualistiche. In seguito si è passati alla creazione di una Società SRL: un network di distribuzione di negozi che vendono prodotti simili e che non solo acquistano insieme, come accadeva nel Consorzio, ma anche condividono la medesima impronta gestionale (ad esempio nell’aspetto e negli arredi del punto vendita). Un modello di business, simile al franchising, ma che parte da tante realtà già esistenti: quasi una “catena multimarca”, ognuno con il proprio logo. Questa soluzione, nata con l’idea di dare servizi, ha permesso ai singoli commercianti di continuare ad essere i “titolari” dei propri negozi, di cui costituiscono senza dubbio la miglior risorsa, dal punto di vista della motivazione alla vendita. Lo scoglio maggiore, come ha confessato Negrini, è stato quello, derivato dall’impostazione individualistica di base, di accettare le competenze degli altri. E’ tuttavia chiaro che, rimanendo uniti, si possono affrontare meglio quelli che oggi sembrano problemi, ma che potrebbero diventare le opportunità di domani: in questo senso, tutto da sviluppare è il capitolo dell’e-commerce, una realtà che può far meno del negozio fisico, anche se non è già più vero il contrario.

Il pomeriggio è stato invece dedicato alle differenze di genere: la nostra specie è determinata fisicamente e mentalmente. Indipendentemente dai gusti sessuali, e a parte alcune varianti epigenetiche, abbiamo infatti due sessi ben definiti: maschio e femmina, accomunati, in quanto specie animale, dall’istinto alla riproduzione e alla sopravvivenza. Il nostro istinto però è debole se paragonato a quello di altre specie: di fronte ad una stessa situazione non tutti gli uomini reagiscono allo stesso modo. Entra infatti in gioco la “legge morale” che ci siamo dati per definire cosa è giusto e cosa è sbagliato. A questo si aggiunge un comportamento fortemente specializzato, determinato dalla biologia: uomo e donna sono infatti profondamente diversi. Il modo di approcciarsi al dialogo, ad esempio: la donna, dalla preistoria collante sociale per la comunità, parla per rendere gli altri partecipi dei propri sentimenti. L’uomo, invece, parla per rispondere ad una domanda o se ha una buona ragione: antropologicamente ricopriva il ruolo del cacciatore, per cui dialoghi diversamente motivati non solo erano inutili, ma potenzialmente anche pericolosi. Una buona notizia per i maschietti, dunque, lo sfogo femminile NON ha bisogno di una soluzione, ma solo di un ascolto attento, perché mira alla condivisione dei sentimenti: ottima e apprezzata idea quella di fare domande più precise. Però anche le fanciulle possono imparare qualcosa: sebbene per il gentil sesso dare consigli sia un modo per far capire agli altri che ci si interessa dei loro problemi, per l’uomo è il modo migliore per farlo sentire un fallito. I consigli, per quest’altra metà del cielo, sono infatti apertamente richiesti oppure motivati dal mancato funzionamento di qualche cosa. Diverso anche il modo di gestire lo stress: la donna lo affronta aprendosi al dialogo con gli altri, l’uomo invece si rilassa chiudendosi in sé stesso, evadendo in attività che lo divertono, in assoluta solitudine. Si spiega dunque perché la sera i litigi siano più che mai frequenti quando la donna vuole chiacchierare per sfogarsi e si sente ignorata dal compagno che non vede l’ora di guardare la tv o leggere un giornale per scaricare la tensione “staccando la spina”. Ed è davvero controproducente criticarlo: la paura più grande dell’uomo è infatti quella di “non essere all’altezza”, per questo deve imparare a dare, superando il timore di perdere il controllo. La donna al contrario pensa spesso di non meritare l’amore e quindi deve riuscire a darsi dei limiti nel donare: al contrario deve imparare a ricevere anche se, spesso, quello che ottiene non è quello che si aspetta. Le donne sono dunque più simili a onde: al massimo della loro altezza donano amore, nel punto più basso misurano il risultato di tanto dare, gli uomini invece sono elastici, che devono allontanarsi per potersi riavvicinare. Ma esistono delle “parole magiche”? Indagando fra i partecipanti al master sembrerebbe che con i ragazzi le frasi chiave siano “non è colpa tua” e “sono felice di poterne parlare con te”, mentre le ragazze apprezzano espressioni che garantiscono sicurezza e interessamento (“tornerò, sono qui per te” e anche un semplice “come è andata”). Queste differenze ancora una volta sono determinate dai diversi bisogni emotivi: le femmine cercano infatti l’attenzione (sollecitudine, comprensione, rispetto, devozione, rassicurazione) ed esprimono sentimenti ed emozioni con il volto e le parole, i maschi al contrario usano il corpo e cercano apprezzamento e ammirazione (fiducia, accettazione, incoraggiamento). Questi due mondi sembrano destinati ad entrare in collisione e il litigio è dietro l’angolo sia quando l’uomo sente che la donna lo disapprova, sia quando la donna è infastidita da come l’uomo e le parla o l’ascolta: entrambi infatti si sentono attaccati personalmente, messi cioè in discussione sulla loro identità. Tuttavia sapendo questo, in teoria, non dovrebbe essere difficile trovare una strada per far pace: “dare” per le donne significa essere persone migliori, e le piccole cose, come le grandi, sono importanti perchè dimostrano attenzione. L’uomo, se incoraggiato, cerca veramente di fare il possibile per accontentare la compagna, a patto che lei spieghi esattamente cosa vuole da lui. Per chi volesse approfondire, ci sono diversi i libri consigliati: dal recente “Le coccole perdute” di Giacobbe all’evergreen “Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere” di John Gray, insomma gli esempi teorici sono tanti…per la pratica, in bocca al lupo, anche se il fatto che non ci siamo ancora estinti lascia ben sperare.

By Chiava Vassena

Il diversity management

Gabriella VigoRaffaella Vigo, formatrice per aziende importanti quali l’Oreal, ha tenuto il 30 Maggio un’interessante lezione sul Diversity Managment. Per prima cosa è stato chiesto ai partecipanti di presentarsi uscendo dai soliti schemi e usando piuttosto le linee guida della Ruota della Diversità, composta da cinque cerchi concentrici, ognuno dei quali corrispondente ad un’area, via via più ampia, in cui collegare elementi della propria persona (es. origini, educazione, abitudini, ambito professionale, eventi storici).
In seguito si è analizzato il cosiddetto “Albero della diversità” che ospita tra le sue fronde le macrodifferenze che possono essere evidenti nell’incontro con l’altro (età, fisico, sesso, etnia, comportamenti …), mentre nasconde tra le radici le micro diversità di più difficile percezione (credo religioso, fede politica, valori, background culturale), senza dimenticare elementi borderline che si collocano nella zona del tronco (quali lo status sociale e la disabilità, non sempre evidenti). Nel leggere la realtà dobbiamo infatti essere sempre consapevoli dei nostri filtri per evitare fraintendimenti. In questo senso è bene tenere a mente la differenza tra fatti e opinioni: i primi, che comprendono il parlare e il fare, possono condurre a discriminazioni punibili per legge, le opinioni invece riguardano un pensiero, che è libero. Un’altra differenza che è importante ricordare riguarda “equità”, valorizzazione nel rispetto delle differenze e dunque meritocrazia, e “uguaglianza”, intesa invece come appiattimento in una forzata assenza di diversità. L’equità nei contesti organizzativi è legata in primo luogo al reclutamento di candidati con un ampia gamma di background e settori sociali, ma la stessa impostazione deve riguardare anche i responsabili della selezione. L’eterogeneità è un valore che va dunque salvaguardato insieme alla valutazione meritocratica, per evitare discriminazioni, anche quelle indirette che si verificano quando si impone una regola per tutelare una categoria ledendo, senza che ce ne sia la volontà, i diritti di un’altra. La discriminazione infatti è reato, anche se non sempre la normativa a riguardo è chiara, perlomeno nel senso comune. Attraverso una sorta di quiz i ragazzi hanno potuto verificare quali comportamenti sono tutelati e quali invece punibili: ad esempio, se è risaputo che le molestie sessuali rientrano nelle discriminazioni, forse non tutti sanno che solo nel 2006 c’è stato un cambiamento nell’onere della prova: chi ha commesso il reato deve dimostrare il contrario. Preferire un uomo invece che una donna per un determinato lavoro non è sempre sinonimo di pregiudizio, ma solo quando il sesso è essenziale alla natura del lavoro (ad esempio nei settori di Arte e Spettacolo). Criteri antidiscriminatori di genere vanno applicati anche all’ambito retributivo dove le donne, ancora oggi, prendono spesso meno dei colleghi maschi: per garantire e affrettare il raggiungimento della parità fra i sessi, che fisiologicamente si dovrebbe verificare nel 2050, sono state previste “azioni positive” ossia attività volontarie pensate per accrescere la rappresentatività di un piccolo gruppo, ma di cui poi tutti beneficeranno. Le quote rosa, così come l’obbligo all’assunzione di un certo numero di disabili, rientrano invece nelle cosiddette “discriminazioni positive”, ossia azioni obbligatorie che mirano a rimuovere discriminazioni negative dando temporaneamente un trattamento di favore a quelle categorie che altrimenti sarebbero sfavorite. L’esercizio successivo ha previsto invece una serie di “ritratti” scritti su grossi fogli appesi per la stanza: poche righe che tratteggiavano personalità molto diverse (casalinga di 30 anni madre di due figli, ragazza indiana che cura la famiglia, uomo non vedente e lavoratore, padre lavoratore di 4 figli). I partecipanti al master hanno dovuto scrivere, sotto a ciascun ritratto, tutti gli aggettivi positivi, ma anche gli stereotipi negativi che la breve descrizione suggeriva loro. Alla luce di quanto scritto, i ragazzi, divisi in piccoli gruppi, hanno “adottato” un ritratto, sforzandosi di inventare per lui una storia in grado di scardinare i pregiudizi emersi nel lavoro precedente. A turno hanno poi sostenuto un colloquio di lavoro fingendo di essere la persona scelta e rispondendo alle domande degli “esaminatori” coerentemente con il background creato in comune accordo. Lo scopo era quello di guardare una situazione da una nuova prospettiva, cercando di sviluppare una sensibilità interculturale. Di fronte alle differenze la prima reazione è infatti quella della negazione, seguita dalla difesa. Poi viene il tentativo di minimizzare le diversità e solo dopo arriva l’accettazione, l’adattamento e l’integrazione intesa come valorizzazione di ciò che ci differenzia. Quando si hanno pregiudizi si considera la propria convinzione come un fatto, oggettivo e certo, cercando conferme nel comportamento dell’altro, che spesso, anche grazie ai neuroni specchio, risponde alle aspettative. La visione di un estratto di un film ha reso tutto più chiaro ai ragazzi che hanno costruito una matrice in cui collocare i comportamenti dei personaggi (discriminante e non, con pregiudizio e senza). Particolarmente pericoloso è risultato l’atteggiamento discriminante senza pregiudizio, poiché non volontario e per questo spesso preso “alla leggera”. In generale è fondamentale ricordare che quando assistiamo a comportamenti che vanno in questa direzione, tutti abbiamo una corresponsabilità: anche se non compiamo l’atto discriminatorio o ne siamo vittime, abbiamo il dovere di intervenire. Un ulteriore accorgimento spesso sottovalutato è quello di non giudicare o discutere il sistema di valori dell’altro: non per tutti sono importanti le stesse cose e quello che a volte sembra solo uno scontro di comportamenti e abitudini, in realtà, proprio come accade all’iceberg parzialmente nascosto, è un conflitto che si origina in profondità, tra immagini sociali e modi differenti di vedere il mondo. Questa diversa visione deriva proprio dai nostri filtri, che arrivano dalla famiglia, dalla scuola, dalle esperienze, dai modelli sociali. Ma è possibile non farci trascinare dai nostri pregiudizi? Sì, solo esercitandoci a conoscerli e a sospenderli: ed è proprio questo il lavoro con cui i ragazzi hanno concluso la giornata. Ognuno ha infatti cercato un filtro che solitamente applica alla realtà e ha provato a guardare le cose eliminandolo, limitandosi a osservare senza valutare, al massimo, facendo domande e ascoltando con attenzione le risposte.

 By Chiara Vassena

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